L'automatica riduzione del 15% del canone di locazione agli enti pubblici. Dubbi di costituzionalità e possibili reazioni del proprietario locatore


L'automatica riduzione del 15% del canone di locazione agli enti pubblici. Dubbi di costituzionalità e possibili reazioni del proprietario locatore

Pubblicata il 24/08/2014 in Diritto Civile

Dal 1° luglio 2014 è esecutiva la riduzione “automatica” del 15% del canone di locazione agli enti pubblici. Analisi della normativa, dubbi di costituzionalità e possibili reazioni per il proprietario locatore.

 

Introduzione

 

Dal primo luglio 2014 diventa esecutiva la “riduzione automatica” nella misura del 15 % del canone di locazione degli immobili affittati da privati alla pubblica amministrazione, stato ed enti pubblici, come previsto dall’art. 24 del DL  66/2014 comma 4, che ha anticipato il termine precedentemente fissato dalla legge Monti (art. 3 del  decreto  legge  6  luglio  2012,  n.  95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7  agosto  2012 n. 135) ed ha contemporaneamente ampliato a dismisura la platea delle amministrazioni pubbliche beneficiarie di questa “autoriduzione”.

Che ora sono praticamente tutti gli enti pubblici.

Con il risultato che ora molti proprietari si vedono inviare una laconica lettera con cui Comuni, ASL, Enti Ospedalieri, Caserme, Province, Regioni ed amministrazioni statali laconicamente comunica che “con la presente in riferimento all’art. 24 comma 4 del DL 66/2014 si comunica che si provvederà ad operare la riduzione automatica nella misura del 15% a far data dal 1° luglio 2014”.

E’ impossibile non rilevare come queste leggi siano improntate a notevole cinismo, in pratica lo Stato si fa la spending review con i soldi degli altri, prevedendo di contenere la spesa non diminuendo i propri spazi  (magari rinunciando ad uffici enormi in palazzi del settecento nei centri storici), ma “autoriducendosi” il canone di affitto in contratti jure privatorum, mentre contemporaneamente aumenta l’IMU a dismisura sui beni strumentali, proprio in un momento di crisi e recessione dove un immobile sfitto fonte di costi enormi è un incubo per qualsiasi proprietario.

E questo lo stato decide, proponendo beffardamente queste norme come “misura per la crescita” mentre invece ontologicamente presuppongono una perdurante crisi per funzionare, in quanto, essendo possibile (ai fini di salvare la costituzionalità della norma, come vedremo) per il locatore l’esercizio del diritto di recesso (di cui parleremo diffusamente dopo) è evidente che questa previsione normativa può funzionare solo contando sulla recessione e sull’eccesso di offerta di immobili strumentali rispetto alla domanda. Il che non rende conveniente al proprietario dell’immobile recedere che altrimenti la Pubblica Amministrazione si troverebbe completamente priva di disponibilità di immobili, per i quali ha magari speso migliaia di euro per adattarli all’uso (si pensi alle cliniche o agli ospedali).

Una misura “per la crescita” che invece, di contro, presuppone logicamente che crescita non ci sara’.

Ma in questa sede non intendiamo disquisire nel merito dell’azione legislativa, volendo unicamente verificare quali rimedi legali e giuridicamente percorribili ha il cittadino per contrastare questa ennesima beffarda azione dello stato ai suoi danni.

 

1 – La norma e i dubbi di costituzionalità

 

La norma in questione, come detto, è il decreto legge 6 luglio 2012 n. 95 convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012 , n. 135 e successivamente integrato dal predetto art. 24 del DL 66/2014 che al comma 4 dell’art. 3 prevede:

Ai fini del contenimento della spesa pubblica, con riferimento ai contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili a uso istituzionale stipulati dalle Amministrazioni centrali, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, nonché dalle Autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) i canoni di locazione sono ridotti a decorrere dal 1º luglio 2014 della misura del 15 per cento di quanto attualmente corrisposto. A decorrere dalla data dell'entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto la riduzione di cui al periodo precedente si applica comunque ai contratti di locazione scaduti o rinnovati dopo tale data. La riduzione del canone di locazione si inserisce automaticamente nei contratti in corso ai sensi dell’articolo 1339 c.c., anche in deroga alle eventuali clausole difformi apposte dalle parti, salvo il diritto di recesso del locatore Analoga riduzione si applica anche agli utilizzi in essere in assenza di titolo alla data di entrata in vigore del presente decreto.

La stessa legge, al primo comma, dell’art. 3 ha anche cancellato (questa volta senza neanche prevedere la possibilità di recesso) la rivalutazione ISTAT per i contratti con la PA per gli anni 2012, 2013 e 2014.

La tecnica usata è quindi quella della “riduzione de imperio” del canone andando a modificare il contratto ex art. 1339 cc solo per gli immobili di cui usufruisce lo stato e la pubblica amministrazione, contratto a sua volta stipulato “jure privatorum” (e quindi senza utilizzo di poteri di imperio) dalla stessa pubblica amministrazione, in questo modo (con apposita legge quindi) aggirando il severissimo divieto di “autoriduzione” del canone da parte del conduttore per qualsiasi motivo preteso, possibilità esclusa dall’art. 1578 c.c. comma 1, come ribadito più volte dalla Corte di Cassazione (da ultimo Cassazione civile    sez. III, 26/06/2012 n. 10639, nello stesso senso Cass. 16 luglio 2002 n. 10271).

Il primo dubbio che si pone è quindi: risponde ai requisiti di costituzionalità una legge di tal fatta, dove lo stato interviene per andare a modificare un contratto già esistente con la tecnica di cui all’art. 1339 (prezzo imposto attraverso una clausola di legge imperativa) che però non è universale ed astratta ma incide unicamente sui rapporti locatizi “ad uso istituzionale” in cui è parte la stessa pubblica amministrazione la quale peraltro agisce jure privatorum ?

Il dubbio è se una norma di tal fatta risponda ai requisiti di ragionevolezza ed eguaglianza ai sensi degli articoli 3, 41, 42 e 53.

Stesso dubbio poi si pone con riferimento al primo comma dell’art. 3 del DL 95/2012 dove il sacrificio immediato imposto al privato della immediata non applicazione per un triennio (2012-2013-2014) dell’aggiornamento dei canoni ISTAT non prevede neppure la possibilità di recesso da parte del locatore.

Il tutto con la giustificazione incentrata sulla eccezionalità della situazione economica e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di contenimento della spesa pubblica".

La giurisprudenza della Corte Costituzionale sul punto è particolarmente rigorosa nell’escludere che una norma dichiaratamente “emergenziale” possa  perdurare, nei fatti, a tempo indeterminato ed essere agganciati alla genericità del concetto di “emergenza economica” che può essere inteso (specialmente con riferimento al debito pubblico) come condizione cronica e permanete. (c.f.r. Corte Cost., sent. 24 ottobre 2007, n. 348; C. Cost., sent. 24 ottobre 2007, n. 349 con cui viene dichiarata proprio per questo motivo l’illegittimità costituzionale dell’ Art. 5 bis D.L. 333 del 11 luglio 1992, che prevedeva “fino all'emanazione di un'organica disciplina per tutte le espropriazioni preordinate alla realizzazione di opere o interventi da parte o per conto dello Stato, delle regioni, delle province, dei comuni e degli altri enti pubblici o di diritto pubblico, anche non territoriali, o comunque preordinate alla realizzazione di opere o interventi dichiarati di pubblica utilità”  la “automatica”  riduzione del valore veniale dell’esproprio).

Inoltre la Corte Costituzionale si è pronunciata specificamente nel censurare, sotto il profilo dell’art. 3 Cost. (principio di eguaglianza), leggi che andavano a incidere sul “valore reale” del diritto di credito ex art. 1422 cc. discriminando alcuni creditori.

Con la sentenza 17 maggio 2001, n. 136 nel dichiarare illegittima una norma che incideva sugli interessi sulle somme dovute ai dipendenti pubblici in virtù di inquadramenti con efficacia retroattiva la Corte Costituzionale afferma:  “L'Avvocatura dello Stato sostiene che la norma denunciata non sarebbe irragionevolmente discriminatoria, perché determinata da esigenze di contenimento della spesa pubblica. Tale allegazione è del tutto generica, riducendosi in sostanza a richiamare l'esigenza di tener conto della giurisprudenza amministrativa che, per l'inadempimento dell'obbligazione retributiva da inquadramento, faceva decorrere gli accessori dalla data della deliberazione dell'indicata Commissione e non dai provvedimenti individuali. Non viene minimamente spiegato come siffatto orientamento possa avere giustificato la sottrazione radicale di taluni crediti retributivi - in quanto tali meritevoli, ex art. 36 Cost., di trattamento privilegiato - alla disciplina generale dell'inadempimento prevista non solo per le retribuzioni degli altri dipendenti pubblici e dei lavoratori in genere, ma addirittura per i comuni crediti pecuniari di ogni altro cittadino. Alla rilevata totale genericità del riferimento alle esigenze di bilancio, consegue che la Corte non debba soffermarsi sul se e in quali limiti esse possano eventualmente incidere sui crediti retributivi del settore del lavoro pubblico".

"Ma, più in generale, il diniego di interessi e rivalutazione comporta per il personale in esame una posizione deteriore rispetto a qualsiasi altro creditore di somma di danaro, tenuto conto che l'art. 1224 c.c. collega all'inadempimento delle obbligazioni  pecuniarie l'effetto normale della corresponsione degli interessi e quello eventuale del risarcimento del maggior danno, nel quale rientra il pregiudizio da perdita di valore della moneta" (Corte Costituzionale 17 maggio 2001, n. 136).

Ora, posto che la perdita del valore reale di un diritto di credito avente ad oggetto una somma di danaro costituisce danno risarcibile ed è violato il principio di eguaglianza da ogni legge che limiti il risarcimento del danno da perdita di valore reale di un diritto di credito avente ad oggetto una somma di danaro, appare evidente il forte dubbio di legittimità costituzionale di una norma che, tralaltro, deroga all’art. 42 della legge n. 392/78 (mai abrogato) che regola proprio questo particolare tipo di locazioni di immobili adibiti ad attività ricreative, assistenziali, culturali, scolastiche e quelli Stato e altro Ente pubblico territoriali in qualità di conduttori, disponendo che anche queste locazioni sono sottoposte alle norme di cui art. 32 e 41 e a quelle di cui all’art. 27 e segg. della citata legge.

L’art. 32, e successive modifiche, riguarda specificatamente l’aggiornamento ISTAT del canoni di locazione nella misura non superiore al 75% della variazione annuale; mentre per quanto attiene i canoni di locazione vigeva e vige il principio della libertà di contrattazione sull’importo dei canoni.

Né, come abbiamo visto, può soccorrere la clausola di “emergenzialità economica” in precedenza censurata dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale per i motivi sopra specificati.

Inoltre, per quanto riguarda l’automatica decurtazione del canone nella misura del 15 % dubbi di costituzionalità sono stati posti dalle associazioni di settore (Uppi e Confedilizia) sotto diversi punti di vista:

-L’intervento legislativo in deroga alle pattuizioni in corso e alle leggi vigenti solo in favore della PA verrebbe a violare la libertà di contrattazione (dove anche la pubblica amministrazione opera jure privatorum) e i principi di correttezza e trasparenza che dovrebbero caratterizzare i rapporti tra stato e cittadino;

-In un contesto legislativo in materia di locazioni caratterizzato dalla libertà di contrattazione dei canoni e della liberalizzazione dei prezzi stride ed appare poco ragionevole un “prezzo imposto” solo nei confronti degli immobili affittati alla PA, motivando sull’emergenza finanziaria,

-l’imposizione di un sacrificio economico solo ad una categoria di persone, i proprietari degli immobili, in nome dell”emergenza economica” e non altre categorie di privati contraenti come i fornitori di beni e servizi alla pubblica amministrazione per contratti di durata o ad esecuzione periodica appare poco ragionevole e in contrasto con il principio di eguaglianza. 

-l’imposizione di una prestazione patrimonale “selettiva” ai proprietari privati sarebbe incompatibile con i principi di eguaglianza e capacità contributiva di cui agli art. 3 e 53 della costituzione, in quanto il legislatore, nell’imporre queste prestazioni, non deve sottoporre a trattamento deteriore, discriminandoli, specifici redditi in dipendenza della loro fonte di produzione comunque legittima (cfr. sentenze sentenze Corte Cost. n. 223 del 2012 e n. 116 del 2013)

Questi legittimi dubbi di costituzionalità a mio avviso stridono però con la decisione del legislatore di inserire il “diritto di recesso” a favore del locatore che si vede imposta questa riduzione del canone.

La domanda fondamentale da porsi, a questo punto è se la previsione della facoltà riconosciuta al conduttore di recedere dal contratto di locazione salva la costituzionalità della norma.

 

2) il diritto di recesso come ancora di salvezza della costituzionalità della norma

 

E forse (il retropensiero è legittimo) il diritto di recesso è stato inserito nel quarto comma dell’art. 3 dl. n. 95 del 2012, come convertito con l. n. 135/2012, proprio per evitare una quasi sicura declaratoria di incostituzionalità della norma.

Viene in mente a questo proposito la sentenza della Corte Costituzionale 22 aprile del 1980 laddove si pronuncia sulla non fondatezza dell’eccezione di incostituzionalità dell’art. 1284 c.c. nella parte in cui stabilisce in misura rigida e precostituita il saggio degli interessi legali.

L'ordinanza di remissione del pretore di Milano reputava ingiustificato il trattamento di chi può richiedere solo l'interesse legale, rispetto a quanti possono convenzionalmente ottenere interessi commisurati al saggio ufficiale di sconto, o anche più elevati. Motiva la Corte Costituzionale che “non è ammissibile il raffronto tra situazioni diverse, come quelle di chi, nel difetto di altro titolo giuridico, ha tuttavia diritto ad ottenere gli interessi legali, e chi avvalendosi dell'autonomia negoziale pattuisce la corresponsione di interessi in misura superiore al saggio stabilito dalla legge comune con norma meramente dispositiva”.

Motiva inoltre “È incontestabile ed universalmente noto che il deprezzamento della moneta incide sul valore reale dei rapporti di credito - debito in valuta: ma gli effetti della svalutazione monetaria rispetto alle obbligazioni pecuniarie (specie se a medio o lungo termine) potranno eventualmente richiedere misure della più varia natura, non necessariamente l'aumento del saggio degli interessi legali.” Inoltre l’art. 1284 cc. al secondo comma consentiva comunque anche in via giudiziale la richiesta di condanna al “maggior danno” laddove per di più la giurisprudenza della Corte di cassazione ha sempre ammesso criteri presuntivi in ordine alla prova della sussistenza del danno, con riguardo alle normali possibilità di impiego e rimunerazione del denaro offerte dal mercato.  

In questo caso il titolare del diritto di credito colpito da “svalutazione” ex imperio imposta dalle legge dello stato (la riduzione automatica del 15%) ha accesso ad una diversa misura con cui “difendersi” da questa svalutazione: l’attribuzione del diritto di recesso.

D’altra parte, anche da un punto di vista strettamente privatistico, va considerato che in tutti i contratti di locazione è prevista “a favore del conduttore” la possibilità di “recedere anticipatamente dal contratto dandone preavviso entro sei mesi”.

A ben vedere con questa legge, nella sostanza lo Stato “impone” a se stesso e a tutte le amministrazioni periferiche, seppur con la discutibile tecnica della sostituzione imperativa di clausole di cui all’art. 1339 cc, di “rinunciare” immediatamente ed in maniera lineare a tutti quegli immobili i cui canoni non siano ridotti del 15 %.

E’ come se, facendo uso del suo potere discrezionale, abbia “imposto” appunto a se stesso (e a tutte le sue amministrazioni periferiche) di “dare immediata disdetta” ai sensi dei contratti in essere (ed in questo senso è anche significativa la decisione di considerare nulle comunque le clausole difformi ostative alla risoluzione da parte del conduttore) per tutti quegli immobili i cui proprietari avessero deciso di non operare questa riduzione.

Questo si sarebbe potuto fare perfino con delle circolari, oltre che appunto con una legge che questo imponesse.

Il legislatore ha invece usato questa diversa tecnica, rovesciando la decisione sul locatore, come se la legge (tral’altro presa con largo anticipo nel 2012) fosse assimilabile, privatisticamente, ad un “recesso del conduttore” accompagnato ad una “controproposta”: i contratti possono continuare ad avere vigore se il locatore accetta la controportopsta, prestando acquiescenza (rectius, non esercitando il diritto di recesso attribuito dalla legge) altrimenti può non accettare la “proposta” esercitando di contro il diritto di recesso attribuitogli dalla legge.

Quindi la norma non potrebbe, neppure in astratto, essere interpretata nel senso dell’”imposizione” d’imperio di un sacrificio economico con gli evidenti profili di incostituzionalità sopra segnalati (violazione art. 41, 42, 3 e 53 cost.) perché è comunque fatto salvo il diritto del proprietario di recedere, di avere quindi accesso ad una diversa “misura” per tutelare il suo credito e la sua proprietà.

La situazione è quindi sostanzialmente identica, si ripete, a quella in cui la PA, facendo legittimo esercizio del suo potere discrezionale e dei poteri conferiti contrattualmente, receda dal contratto di locazione (e il 99,9% dei contratti vigenti  conferiscono questa possibilità) e nel contempo proponga allo stesso locatore di stipulare un nuovo contratto con il canone ridotto.

Solo che, per esigenza di speditezza efficienza e buon andamento (art. 97 cost.) il legislatore decide di adottare diversa tecnica normativa “rovesciando” sul privato la decisione di recedere o meno da un contratto con canone autoridotto con la tecnica dell’art. 1339 c.c.)

Per cui a mio avviso è arduo sostenere l’incostituzionalità della norma, proprio grazie al diritto di recesso conferito.

Potrebbe casomai residuare qualche dubbio sulla “ragionevolezza” di una norma così lineare che accumuna le più disparate situazioni, potendo ben sussistere delle situazioni foriere di danni per la stessa Pubblica Amministrazione in contrasto con gli intenti (di riduzione della spesa pubblica) proclamati dal legislatore: quello di vedersi opporre dei recessi di locazioni magari particolarmente convenienti e pure al di sotto delle condizioni contrattuali, ovvero dove (situazione non infrequente trattandosi di immobili affittati per specifici usi “istituzionali”) la PA ha investito notevoli somme di danaro per adeguare quegli immobili alle sue esigenze che verrebbero così immediatamente frustrate.

Ma appare un’ipotesi ardua ed in concreto difficilmente percorribile.

Di converso appare dubbia la costituzionalità del primo comma dell’art. 3 della legge 7 agosto 2012, n. 135 in relazione all’art. 3 della costituzione anche perché, nella modifica dei contratti in punto di rivalutazione ISTAT per gli anni 2012-2013-2014 non attribuisce al locatore il diritto di recesso così come previsto nel comma 4 della medesima legge. 

 

3) Operatività del diritto di recesso: un rimedio per i proprietari ed un boomerang per lo stato ?

 

Ed ora passiamo ad esaminare le possibili tutele ed i rimedi giuridicamente percorribili e potenzialmente convenienti mettendoci nei panni di un proprietario titolare di un contratto di locazione con una PA “autoridotto” dalla stessa con una semplice lettera raccomandata.

Cosa può fare ?

A mio avviso non è conveniente contestare giudizialmente questa riduzione eccependone l’illegittimità costituzionale, sia per il costo di un’azione di tal fatta sia per le sue scarse prospettive di accoglimento (per le ragioni sopra esposte).

E’ comunque prudente parimenti non “aderire” con accettazione esplicita né implicita alla comunicazione con cui la PA dichiara di autoridurre il canone, a mio avviso occorre comunque riscontrarla con una raccomandata AR od una pec con cui il proprietario contesta questa la legittimità costituzionale della legge che prevede questa “autoridizione” e tuttavia la subisce non intendendo recedere dal contratto, invitando quindi l’amministrazione a procedere a pagare il canone autoridotto “con riserva” di ripetere la differenza non corrisposta.

Perché c’è anche il rischio che qualche amministrazione, trincerandosi dietro la “mancata accettazione” della autoriduzione del canone imposta dalla legge rifiuti perfino di pagare il canone autoridotto, cosa che è ovviamente illegittima e può anche dar luogo a sfratto per morosità in quanto la riduzione opera come detto con la tecnica dell’art. 1339 inserendosi quindi come clausola contrattuale.

Ed inoltre con una lettera di tal fatta ci si pone al riparo da eventuali acquiescenze e, nell’ipotesi in cui la norma dovesse essere ritenuta incostituzionale, ottenere comunque il rimborso della differenza dei canoni falcidiata dall’autoriduzione.

Potendo a questo essere ritenuta ostativa una esplicita accettazione della riduzione, che potrebbe essere (anche se erroneamente a mio avviso) ritenuta come una accettazione negoziata anche se determinata dalla legge. In ogni caso a scanso di equivoci è preferibile prendere posizione netta con una raccomanda nell’ipotesi in cui il proprietario dovesse decidere di non avvalersi della clausola di recesso.

Questo nell’ipotesi della decisione di non avvalersi della clausola risolutiva.

Ma come opera, in concreto, questa clausola risolutiva e come se ne può avvalere il proprietario ?

A differenza di quanto previsto dell’art. 15 comma 13 del DL 95/2012 Il legislatore, correttamente, non fissa alcun termine per l’esercizio del diritto di recesso.

Di conseguenza deve ritenersi applicabile senza limiti temporali ai sensi del comma 2 dell’art. 1373 del codice civile secondo cui nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, ossia di durata, (come un contratto di locazione) la relativa facoltà può essere esercitata anche dopo l’inizio dell’esecuzione, ma con effetto limitato alle prestazioni da eseguire. Quindi la conseguenza è che rimarrebbe l’obbligazione di pagamento del canone legislativamente ridotto fino alla data del recesso, la cui facoltà è attribuita dalla legge in diretta conseguenza dell’auto-riduzione del canone e senza previa fissazione di un limite temporale per l’esercizio di questo diritto.

Quindi come prima cosa il proprietario dovrebbe verificare (previa indagine di mercato) se è conveniente per lui rientrare (o tentare di rientrare, ponendo in essere atti giuridici funzionali al recupero della disponibilità dell’immobile a seguito del recesso) nella disponibilità dell’immobile essenzialmente andando a verificare in concreto se per quell’immobile e per quella zona l’immobile possa essere proficuamente affittato a terzi in condizioni più vantaggiose rispetto al canone autoridotto dalla PA.

E, come abbiamo detto in premessa, proprio la cinica “scommessa” sul cronico perdurare della crisi e sulle saracinesche chiuse al di la degli ottimistici proclami propagandistici sulla “fine del tunnel” ha spinto il legislatore a ritenere la “non convenienza” per il proprietario a risolvere il contratto.

Ma se invece il proprietario dovesse decidere di risolvere il contratto, quali sarebbero le conseguenze pratiche ?

L’amministrazione potrebbe prendere atto del recesso e liberale i locali.

Ovviamente il proprietario dovrebbe verificare se questa soluzione (considerando i tempi con cui si muovono le amministrazioni pubbliche, la tipologia della struttura affittata, la concreta o meno possibilità di reperire a breve altre alternative) sia “nell’immediato” concreta e possibile.

Anche per cautelarsi laddove dovesse ricevere da terzi una seria proposta di affitto a condizioni vantaggiose, ovviamente dovrebbe sottoporre comunque l’eventuale nuovo contratto alla condizione sospensiva dell’avvenuta liberazione dei locali e senza previsione di penali contrattuali in difetto.

Potrebbe infatti accadere che la P.A., semplicemente, decida di non rilasciare i locali non avendo alcuna soluzione immediata alternativa dove trasferirsi oppure dovendola reperire a costi maggiori e parimenti non in linea con quanto disposto dalla legge.

In questo caso ovviamente il proprietario deve essere indennizzato per la mancata disponibilità dell’immobile, dal momento in cui sorge l’obbligo della restituzione dell’immobile.

 

4) L’esercizio del diritto di recesso – termini di rilascio per la Pubblica Amministrazione.

 

Qui sembrerebbe esserci comunque una carenza normativa o una svista del legislatore, in quanto la norma prevede solamente “salvo il diritto di recesso” senza stabilire nulla sui termini di rilascio dell’immobile a seguito di questo diritto di recesso, il che porta a ritenere che il recesso abbia effetti immediati, sia in ordine alla risoluzione del contratto (immediata) che all’obbligo di restituzione del bene, connaturato naturalmente (come obbligazione del conduttore) all’avvenuta risoluzione del contatto.

Né potrebbe certamente “applicarsi per analogia” il termine di 12 mesi fissato dalla legge (art. 28 Legge 27 luglio 1978, n. 392) come termine minimo per effettuare la disdetta del contratto di locazione di immobile destinato ad uso diverso da quello abitativo impedendo così il rinnovo, perché la fattispecie è completamente diversa trattandosi nel secondo caso di un recesso di contratto in essere stabilito da una norma di legge a seguito della modifica ex imperio delle condizioni contrattuali ed il recesso è ontologicamente diverso dalla disdetta funzionale ad impedire il rinnovo automatico di un contratto in scadenza.

Inoltre “ubi lex noluit, tacuit” quindi se non è fissato alcun termine di rilascio o di efficacia del diritto di recesso significa che questo termine non esiste ed il recesso opera immediatamente.

In questa maniera, non stabilendo alcun termine, è evidente che l’esercizio del diritto di recesso rende immediatamente dopo la detenzione dell’immobile da parte della Pubblica Amministrazione “sine titulo” con tutte le conseguenze (deteriori per la PA e favorevoli al proprietario), sia per quanto attiene l’obbligo di rilascio (immediato) dell’immobile, sia per quanto attiene all’obbligo di indennizzo e risarcimento del danno.

Allora perché il legislatore ha previsto solo il diritto di recesso “dimenticandosi” di normare i termini di rilascio a seguito del recesso ?

In realtà è solo un’apparente dimenticanza in quanto con l’assenza della previsione del termine (e quindi l’immediata operatività del recesso con speculare diritto immediato per il conduttore di ottenere l’immediato rilascio del bene) è stata salvata la costituzionalità della norma, altrimenti si sarebbe comunque imposto in via immediata un sacrificio ad una particolare categoria di persone (i proprietari degli immobili affittati con contratto jure privatorum alla PA) senza alcun rimedio o “misura” alternativa, con tutti gli evidenti problemi di costituzionalità già segnalati nel precedente capitolo 1.

Inoltre questa “immediata operatività” del recesso non potrebbe certo dirsi “irragionevole” e quindi affetto da illogicità manifesta rispetto alla condizione “normale” in cui perfino nell’ipotesi del mancato rinnovo del contratto di locazione di locale ad uso diverso da quello abitativo è concesso un termine pure lungo per permettere al conduttore di “organizzarsi” ove si consideri che la legge comunque è del 2012 e che quindi gli uffici della Pubblica Amministrazione interessati da questa normativa avrebbero dovuto e potuto (usando ordinaria diligenza) prendere in considerazione l’ipotesi, concessa sin da subito dalla legge, che il locatore optasse per il recesso, organizzandosi di conseguenza onde non subire danni o quantomeno limitandoli al massimo.

 

5) Il diritto del proprietario all’indennizzo ed al risarcimento del danno nel caso di ritardo nel rilascio dell’immobile.

 

Quando il conduttore ritarda nella consegna dell’immobile il locatore ha diritto, ai sensi dell’art. 1591 c.c. al corrispettivo dovuto in virtù del contratto di affitto (nella fattispecie, il canone concordato ridotto d’imperio dall’art. 4 del DL 95/2012) oltre all’eventuale maggior danno (art. 1591 c.c. Il conduttore in mora a restituire la cosa è tenuto a dare al locatore il corrispettivo convenuto fino alla riconsegna, salvo l'obbligo di risarcire il maggior danno).

Quindi l’obbligo di pagare il corrispettivo dovuto permane anche dopo l’esercizio del diritto di recesso e per tutto il tempo fino alla materiale consegna della cosa locata “a prescindere” da ogni ulteriore prova del danno concreto subito dal proprietario, essendo considerato come una forma di risarcimento minimo (salvo quello ulteriore) previsto dalla legge (cass. n. 8913/2002). Questo è considerato in giurisprudenza debito di valuta di natura contrattuale, e quindi come tale “non è suscettibile di rivalutazione monetaria ma produce interessi dal giorno della domanda (salvo il maggior danno, a norma dell'art. 1224, 2° comma, c.c., ove allegato e dimostrato)” (Cass. 12.7.1993, n. 7670).

L’ulteriore obbligo, quello connesso al “maggior danno” presuppone al contrario la prova concreta (e rigorosa) del danno (tra le tante: Cass. 2526/2006, 7499/2007). 

Questo “maggior danno” potrebbe consistere nella perdita del “maggior corrispettivo” rispetto a quello percepito dalla pubblica amministrazione inadempiente all’obbligo di rilascio, ma la prova della sua esistenza, secondo la giurisprudenza maggioritaria, deve essere rigorosa, come confermato dalla recente sentenza della Cassazione, sez. III, n. 15899 del 11/07/2014 (sentenza riguardante la mancata restituzione di un immobile da parte di un’amministrazione comunale) secondo cui la prova dell’eventuale maggior danno deve essere data “con rigorosa dimostrazione che la ritardata restituzione dell'immobile ha concretamente pregiudicato la possibilità di locare il bene a terzi per un canone superiore all'ultimo corrispettivo convenuto con il conduttore inadempiente, senza che possa ritenersi a tal fine sufficiente la mera prova del diverso e maggiore valore locativo di mercato”.

In sostanza il conduttore, per provare il maggior danno, deve fornire la prova dell’esistenza di serie trattative con terzi per l’affitto (o addirittura per la  vendita) dell’immobile e che queste trattative non sono andate a buon fine a causa dell’inadempimento all’obbligo di restituzione da parte del conduttore, ad esempio attraverso la produzione di corrispondenza o l’intervento di un’agenzia immobiliare, ovvero addirittura una proposta irrevocabile per un determinato tempo (come accade spesso nelle trattative inerenti l’acquisto di un immobile), proposta poi non andata a buon fine a causa dell’inadempimento della Pubblica Amministrazione.

Peraltro occorre sottolineare che il locatore deve pur sempre comportarsi secondo buona fede e correttezza ai sensi dell’art. 1227, comma 2 c.c. e quindi il proprietario nel caso che, successivamente all’esercizio del diritto di recesso abbia ricevuto una proposta di acquisto o di affitto, deve comunicarla tempestivamente al conduttore -anche rinnovando, prudenzialmente, l’intimazione al rilascio già effettuata, e preavvertendo che provvederà a richiedere il maggior danno in caso di inadempimento. Questo è stato ribadito in giurisprudenza: la Corte di Cassazione terza sezione, con sentenza del 22.4.2013 n. 9722 (riguardante un caso in cui il locatore aveva concesso l'immobile in locazione ad un terzo soltanto due giorni prima della scadenza dell'obbligo di rilascio da parte del precedente inquilino, quando era evidente che quel termine non sarebbe stato rispettato, ed aveva pattuito col terzo una onerosissima penale per ogni giorno di ritardo nella concessione del godimento del bene) ha stabilito che Il locatore, una volta scaduto il contratto, o in previsione della scadenza dello stesso, può stipularne uno nuovo con un diverso conduttore, anche se l'immobile non gli sia stato ancora restituito; tuttavia qualora sia prevedibile, con l'uso dell'ordinaria diligenza, che il primo conduttore si renderà moroso nel rilascio del bene locato, e ciononostante il conduttore lo conceda in locazione a terzi, pattuendo volontariamente clausole onerose per l'ipotesi di un proprio inadempimento, senza tempestiva e completa informazione dell'originario conduttore, egli non può pretendere dal medesimo il risarcimento di questo maggior danno, ostandovi il disposto dell'art. 1227, comma 2, c.c., in considerazione della propria condotta contraria a buona fede e correttezza.

 

Conclusioni

 

In conclusione possiamo affermare che:

1)    la nuova normativa nella parte in cui stabilisce, intervenendo nei contratti in corso, il blocco della rivalutazione ISTAT per gli anni 2012-2013-2014 (art. 3 comma 1 DL 2012/95) presenta forti dubbi di costituzionalità, mentre la legittimità costituzionale della parte in cui stabilisce la riduzione del canone del 15% è fatta salva dal diritto di recesso conferito al locatore;

2)    Il diritto di recesso è esercitabile immediatamente e non è soggetto a limiti temporali, trovando applicazione il comma 2 dell’art. 1373.

3)    A seguito della comunicazione del recesso la PA è tenuta a rilasciare immediatamente l’immobile locato che diventa detenuto “sine titulo” e se non lo fa dovrà corrispondere ex art. 1591 cc il canone di locazione (ridotto del 15%) oltre l’eventuale maggior danno, laddove questo sia provato dal locatore.